la ricetta della nonna (Storia)

Crepes agli spinaci

Nonna Lidia aveva 86 anni quando suo figlio morì. Lui ne aveva 58, gli ultimi dodici li aveva passati in esilio, gli ultimi dieci in clandestinità.

Nata nel 1908 a Trieste, aveva vissuto due guerre in quella terra di frontiera che va da Monfalcone a Muggia.
Espatriata, temporaneamente, in Austria durante la prima guerra, era poi dovuta scappare da Trieste e riparare a Milano alla fine della seconda a causa, probabilmente, di qualcuna delle bizzarrie del suo vorticoso marito Romeo. Una bizzarria grossa doveva essere stata. Il nonno non rimise mai più piede nella città natale, e anche la nonna ci si recava a fatica.

Magra, anche troppo. Ipertiroidea, “durante la guerra avevo due tessere alimentari”, e “resicata gastrica”, ossia operata di un’ulcera che a suo dire non c’era mai stata. Sempre in movimento, la nonna cucinava volentieri.
Una cucina semplice ma mai distratta. Memorabili la sua jota (una minestra triestina di fagioli e crauti) e il goulash, riservati alle grandi occasioni.

Ma il piatto che più faceva la mia gioia, quelle volte che andavo a trovarla, erano le ‘omelettes’ o ‘crepes’ che dir si voglia.

L’esilio di Sergio non era stato una passeggiata, la clandestinità era stata un’opportunità.
A casa nostra ciascuno pagava personalmente le sue scelte e non usava lamentarsi. Così la nonna (come tutti noi peraltro) aveva seguito pazientemente le tracce del figlio ribelle in giro per l’Europa, usando mezzi talvolta di fortuna e dei ricoveri non sempre ortodossi.

Si avvicinava, però, allora, il tempo per girare pagina. L’inesorabile macchina della giustizia aveva finalmente sancito la prescrizione della pena e l’esilio poteva dirsi finito. Sergio aveva anche un po’ questionato con i suoi compagni (ma questo ancora non lo sapevamo) e anche la latitanza sembrava non aver più ragion d’essere. Stanco, provato e indiscutibilmente spaventato dalla prospettiva, aveva sinceramente considerato l’ipotesi di tornare a Milano. Quando morì lo aspettavamo a casa a giorni.

Ci son dei luoghi del ricordo che sanno contenere più di quanto valgono e la nonna, con la sua prosa omerica, accompagnava sempre le sue ‘crepes’ con la storia della guerra. La sua guerra, la prima. “Eravamo sei figli”. Sei figli, non sei fratelli, il primo pensiero a sua madre, Gabriella, e all’arte di cavarsela in decenza con pochezza di mezzi. “Metteva a tavola otto persone con quasi niente”, e via con la storia di come si rubava un pezzo di pane o di prosciutto dal piatto del fratello più grande per poi restituirlo sotto gli occhi attenti ma non severi della mamma. I figli si ridussero poi a cinque (Lidia, Wally, Nella, Oscar e Giorgio) dopo la morte del giovane Paolino, che lasciò una traccia discreta ma non cancellabile.

Quante volte ho sentito quel racconto non so dire. Ricordo invece ancora il profumo e il sapore delle ‘omelettes’. Piselli e pancetta, spinaci e grana oppure dolci, con una sventagliata di zucchero e, sempre, un’abbondante dose di burro fuso colata all’ultimo. Un piatto veloce, da decidersi al momento, per fare di un pasto comune una piccola festa del palato.

Perdere un figlio è tra i dolori più grandi, un evento contronatura. Lidia, che ne aveva pur viste parecchie, sembrò non reggere. La notizia arrivò come un colpo di scure sul tempo: il vizio e la vita si erano mangiati il fegato del maggiore proprio quando stava per tornare a casa. C’è chi ha sussurrato che l’imminente esito non fosse del tutto scorrelato dalla tragica fine ma su questa strada non è lecito proseguire oltre.
Il 22 gennaio 1994 Sergio morì di cirrosi (che si tramutò poi in infarto, per colpa di uno sciocco pudore) e la nonna smise di parlare e di mangiare.

Magra, forse troppo, vecchietta, sempre più, in continuo movimento, spense la sua luce e si fece fantasma.

Furono giorni difficili. Sergio, scomparendo, aveva lasciato un vuoto ingombrante.
La nonna-fantasma continuava a muoversi senza parlare né mangiare mentre noi iniziammo seriamente a preoccuparci. Vicinanza, cura e affetto dei parenti e degli amici più stretti non sembravano scalfire il cuore addolorato che si era fatto pietra.

Fu dal caso, o da una inconsapevole intuizione, che venne il gesto di chiedere alla nonna la ricetta di quel piatto. “Dai, nòniza, insegnaci a fare le ‘crepes’ come le fai tu”. Ci guardò con degli occhi profondi e fece un leggerissimo sorriso. Fu come aver girato una chiave, una delle chiavi della sua “guarigione”, se mai nella vita si può guarire. Si vede che, col tempo, la vicinanza, la cura e gli affetti avevano scaldato il sasso perché potesse tornare ad essere cuore.

Chissà se pensò a sua mamma Gabriella e al di lei figlio Paolino, morto giovane. Chissà se ricordò quella tavola povera ma chiassosa, chissà se decise semplicemente, con la consueta discrezione, di mandarci tutti a quel paese, noi che non riuscivamo a capire; si alzò, andò in cucina e diede inizio alle operazioni.

La lezione fu breve, la cena modesta ma serena. La lasciammo sicuri che, ancora una volta, ce l’aveva fatta.

Vi lascio la ricetta, come l’ho segnata.

CREPES
Per ogni crepe 1 cucchiaio di farina [8 cucchiai] 1 uovo (x 4 persone)
latte
sale (poco)
acqua minerale 2/3 cucchiai
cucinare nell’olio e non nel burro

tommaso 23 ottobre 2015