questo è un appunto che desidererei rivedere insieme, il cui scopo è proporre un ponte con chi è molto più giovane o viene da lontano. Abbiamo delle cose da scambiare e di queste qualcosa potrebbe essere qua
È tra la fine degli anni 60 e la fine degli anni 70 che in Italia, il paese in cui sono nato e cresciuto, accadono, per delle ragioni che non è questo il luogo di indagare, dei fatti che, agli occhi di oggi, possono sembrare stupefacenti.
Benché la vulgata ordinariamente li ricordi (ed oggi ami rappresentarli essenzialmente) come anni cupi, fatti di scontri di piazza, di attentati, di giovani scioperati e di scioperanti giovani, di manipoli di folli che minacciavano la sicurezza dei ‘comuni cittadini’ tanto da spingere i testimoni più attenti a raccontare quanto poco sicuro fosse allora uscire di casa; benché chi più saggio, attento e politicamente corretto ricordi che sono stati gli anni delle stragi, delle bombe sui treni, dei tentati colpi di stato della destra (s)fascista, gli anni di Pinelli e di Valpreda … benché quindi di tracce ‘visibili’ di quegli anni ve ne siano a josa, la loro logica, il senso storico, o quantomeno il solo (buon)senso sembrano misteriosamente scomparsi. Restano gli anni di Piombo, anni della sconsiderata follia.
Così ‘grossomodo’ possiamo dividere il mondo dei vivi di questo paese in due, chi c’era e può sapere e chi non c’era e ha pochissime possibilità di farsi un’idea di ciò che è stato e perché.
Sono nato nel 1963, nel 1970 avevo 7 anni e nel 1977 ne avevo 14, quasi non c’ero. Ossia il 14 maggio 1977 quando in via de Amicis qualcuno si stacca dal corteo, spara e l’agente C. muore c’ero, ma c’ero anche prima, poco prima, quando il corteo, su un percorso non più autorizzato passa sotto le mura di san vittore e i prigionieri iniziano a lanciare stracci incendiati dalle finestre per rispondere agli slogan, per esserci insieme. Mentirei se dicessi che capivo cosa stava succedendo ma era chiaro che era molto di più di una follia. C’ero per il rotto della cuffia.
Quegli anni, al contrario dell’immagine che ne viene comunemente trasmessa, nascondono un tesoro oramai sepolto o sperperato, che è necessario citare per capire gli avvenimenti che ne seguono.
Sono stati infatti gli anni in cui soggetti da sempre esclusi dal diritto alla parola e alla decisione si sono “presi la libertà di desiderare”, e hanno deciso di farlo ad alta voce senza ricorrere a troppe mediazioni istituzionali. Sono gli anni in cui chi deteneva (e conservava gelosamente) dei saperi per ragioni di classe o di casta ha dovuto confrontarsi con dei manipoli di dilettanti molto motivati a capire quale fosse il loro ruolo in tutto questo, se fosse proprio necessario, e a farlo insieme: la società lasciava la Politica e la Storiografia senza parole.
è un lavorio lento, che lungo la sua strada merita poche notizie nelle pagine del giornale e nessuna data nei libri di storia
Sono i malati psichiatrici, i loro familiari e alcuni specialisti, tutti intelligenti, generosi e coraggiosi, che insistono perché la malattia mentale non sia considerata oggetto di segregazione ma di cura, che mettono in relazione il malato con il suo mondo (e il mondo con la malattia). Alla loro forza ed energia dobbiamo la legge 180 e l’inizio della chiusura degli ospedali psichiatrici.
Sono i bambini, i ragazzi delle scuole inferiori ed i loro genitori, che insieme a i loro maestri e alle loro maestre sperimentano dei modelli educativi che avvicinano la scuola al contesto circostante (e il contesto circostante alla scuola) ancora oggi imitati e presi ad esempio in tutto il mondo.
Sono le donne che mettono in discussione un ruolo attribuito per genere e un sistema che le vuole strumento produttore e riproduttore di sé stesso; senza parola ma mogli, madri, lavoratrici, amiche, sempre con un ruolo sociale confezionato. Racconteranno il senso di sé e la dignità del rivendicarlo, chi saprà (femmina o maschio) riuscirà ad impararlo. Taglieranno la società con una linea trasversale, piena di intersezioni e di ostacoli, la loro lezione pescava le sue ragioni in una storia molto antica, hanno dato diritto al piacere e alla sofferenza.
Sono i malati, di vita e di lavoro, che imparano a discutere della loro ‘malattia’, imparano la scienza, ricostruiscono il ciclo del loro produrre e ve ne scoprono le tossicità. È Medicina Democratica (movimento di lotta per la salute) che dà un senso sociale e collettivo al concetto di ‘salute’ e apre le porte ai diritti del malato in quanto essere sociale.
Sono i lettori voraci che spingono gli editori a produrre testi che parlano di attualità, di conoscenza, di sapere, è l’editoria alternativa che scavalca le rigidità e i controlli dell’editoria di mercato. Di questa ci resta una marea di pubblicazioni che altrimenti mai avrebbero visto la luce.
Sono i proletari che reclamano il diritto al sapere. E quindi i corsi delle 150 ore, i lavoratori che tornano a scuola per ragionare sul loro mondo.
Sono i proletari che si impossessano della politica e delle redini del conflitto.
Faccio tre esempi a caso capitatimi tra le mani di recente, l’argomento è troppo articolato e complesso per un appunto di questo genere.
- Nel 1964 compagni proletari in rottura con il PCI vanno in visita politica a Pechino e sono ritratti (in una bella foto del bel libro “la fuga in avanti” di M.M.) insieme al presidente Mao.
- Il primo maxiprocesso alle BR a Torino inizia nel 1976, dura quattro mesi ma ci mette quasi due anni ad incominciare quindi finisce nel 1978. Undici imputati con imputazioni più gravi rifiutano il processo, rifiutano gli avvocati difensori, conducono un processo di rottura come non se ne erano mai visti in Italia; supportati anche dall’esterno del carcere mandano in cortocircuito il sistema giudiziario che non ha strumenti giuridici per affrontare una situazione di questo genere.
- Il SISDE, nel 2005, a proposito delle elaborazioni sempre di marca BR sullo Stato Imperialista delle Multinazionali scrive: “Per la verità le BR, forse proprio per aver osservato assolutamente dall’esterno la vita politica ufficiale e l’economia, danno prova di aver compreso precocemente alcuni fenomeni di trasformazione delle società industriali”.
Cosa deve aver significato per una classe storicamente e socialmente senza parola riuscire a stabilire delle articolazioni di rapporti così complesse senza mediazioni e senza scendere a compromessi?
Dal mondo provenivano, lontani ma forti e chiari segnali analoghi, il Viet-Nam, piccolo e povero paese sconfiggeva una delle più grosse potenze mondiali. Le ultime colonie africane conquistavano la loro indipendenza.
Ciò che la storia non tramanda, perché non può o non vuole, è il brusio diffuso e incessante che i protagonisti di queste vicende fanno in ogni luogo. Il rumore di un costante lavoro di gruppo, di un gruppo non omogeneo ma molto abituato a lavorare in comune e ben propenso a farlo. L’interazione non è sempre diretta, non sempre vi è continuità ideologica o di percorso ma, come vale per le sostanze liquide o gassose, la temperatura è data dallo stato di agitazione delle molecole nel loro complesso, e la temperatura è quella che determina i passaggi di stato, ossia le grosse trasformazioni.
e qui ho parlato delle cose che si ‘possono scrivere’ nel pudore della politica. Naturalmente c’era la musica, la pittura, la letteratura, l’amore libero, la psichedelia sia in Italia che all’estero, ossia metti gli Area e Frank Zappa e ti fai un’idea. E con buona pace dei testimoni attenti citati all’inizio, mai vi fu tanta gente a piedi in giro per le strade di Milano, giorno e notte.
Questo e sicuramente molto più di questo impegnava attivamente un tessuto sociale diffuso e radicato, benché, appunto, storicamente muto, anche il 14 marzo 1977, quando i prigionieri (senza parola per definizione) lanciano stracci incendiati dalle bocche di lupo del carcere di san vittore per rispondere ai nostri slogan.
E qui, penso, sta il gran buco di quel decennio, ciò che la memoria non osa raccontare, ciò che rende incomprensibili oggi le tracce che ne conserviamo. Il fatto che in subordine all’aspettativa comune che restassero “senza parola”, i soggetti in questione hanno parlato, eccome, e lo hanno fatto con cognizione di causa. Una cosa inaudita. Meglio far finta di niente.
Il gran buco sta qui ma forse non solo. C’è qualcos’altro di questa storia che conviene non raccontare. Sono i costi che lo stato borghese / capitalista paga per placare questa piaga dei movimenti. È la rinuncia all’immaginario di un sistema che pensava di potere, nelle sue compatibilità, difendere i più deboli, premiare i più meritevoli lasciando però la proprietà privata nelle mani di chi l’aveva. Immaginario che aveva guidato il paese negli anni della grande crescita economica perché poteva sembrare che effettivamente il sistema reggesse. Per chi ci ha creduto, deve essere stata una delusione non da poco.
E qui torniamo alla storia più nota, Cossiga manda i carri armati in piazza, spara e per rafforzare la funzione repressiva si mette mano alla normativa.
Non è mai inutile ripetere che la norma non muta se non a seguito del mutare delle cose e di sottolineare che la norma di fatto non è mai astratta ma dipende dai rapporti di forza che ha attorno.
Quindi il diritto penale muta, si piega alle necessità di una parte politica del paese per fermare il fiume che stava iniziando a prendere acqua.
Quindi il diritto penale chiude. Non si esce più di prigione per scadenza termini. G.N. fa sette – anni – sette di carcerazione preventiva per poi essere assolto. Sette anni, e nessuno sembra preoccuparsi.
Quindi il diritto penale e l’ordinamento giudiziario si fa severo. Il carcere si fa duro, poca aria, colloqui con i vetri, isolamento, minacce.
Quindi il diritto penale esige. Il problema sembra non essere più tanto il reato commesso quanto l’attitudine a commetterlo. Si può essere condannati in assenza di elementi probatori diretti ma solo per testimonianza di pentiti. Si aggravano molto le pene per chi offre supporto (ospitalità, denaro) all’imputato.
Nel 1984 un avvocato ricorda:
Mi ricordo di un’imputata di favoreggiamento che aveva avuto l’ordine di accompagnamento, […] perché aveva ospitato casualmente un tizio che poi si era pentito e l’aveva accusata di averlo ospitato. Lei affermava di averlo ospitato ma senza sapere che era clandestino, ed il P.M. perciò cercava di sfotterla chiedendo se avesse mai visto armi in casa sua, se avesse mai visto questo o quello. Fa presente di essere contraria alla lotta armata ed il P.M. contesta che l’imputata dimostra con l’ostinato diniego, una vicinanza con aree della lotta armata e ammonisce la stessa facendole presente i noti vantaggi che invece le deriverebbero da una scelta di ciò che si chiama “lealtà processuale” ossia “confessione” e “chiamata di correo nei confronti di altri”. La ragazzina in questione malata tra l’altro di un diabete gravissimo, risponde di no che è anche malata, che ha già i suoi problemi, che quelli non li ha mai visti.
Allora il P.M. con separato provvedimento emette ordine di cattura. […]
E allora c’è questa assurdità che anche noi avvocati ci troviamo a verificare e che molto spesso e lucidamente ci fa dire: “Anche se confessi un fatto non vero, che non hai commesso, teoricamente hai un trattamento assolutamente migliore di quello [che hai] se eserciti il diritto di difesa”.
Quindi il diritto chiude gli occhi. L’abuso e l’eccezione alla norma è prassi diffusa, in nome di una emergenza (vecchio trucco, mai più abbandonato) l’applicazione delle regole si fa molto elastica, le testimonianze dei pentiti raccolte nelle questure non vengono confermate in sede processuale, gli imputati vengono interrogati come testimoni (quindi senza avvocato), le ritrattazioni dei pentiti non vengono considerate per non indebolire il valore probante della categoria, i colloqui tra imputato detenuto e difensore vengono registrati.
Quindi il diritto premia. Prima i pentiti, chi aiuta e collabora, poi i dissociati, che abiurano, e giurano di emendarsi. Lo stato italiano stabilisce che tra i valori positivi vi è il tradimento, in un contesto emergenziale, si intende. M.V., il killer dagli occhi di ghiaccio, reo confesso di numerosi omicidi, pentito, esce di galera semilibero poco tempo dopo l’arresto.
Quindi il diritto punisce:
L’interrogatorio non diventa più meccanismo di difesa, come in ogni paese liberale dove è un mezzo di difesa dell’imputato che se vuole se ne avvale, se non vuole si rifiuta di rispondere. Oggi invece è tramutato in mezzo di prova contro l’imputato e contro gli altri con in più questo meccanismo di tortura, perché è indubbio che meccanismi fatti di tortura vera e propria sono successi, accertati da sentenze (possiamo ricordare Padova con il “dopo Dozier”, dove ci furono trattamenti efferati e classici che andavano dal tagliuzzamento di parti del corpo, all’ingestione di litri e litri di acqua fino a traumi con lesioni timpaniche, finte fucilazioni, bruciamento dei testicoli e cose di questo genere).
Quella è la tortura come ci immaginiamo noi e anche quella chiaramente si verifica anche se sporadicamente in tutta una serie di casi. Ma è il meccanismo che è basato su questo principio, perché se nei casi visti è legato alla tortura che dura pochi minuti, per un soggetto che è privato della propria libertà e al quale viene fatta balenare la possibilità di potersi sottrarre ad una sofferenza certa e prolungata negli anni, a fronte di un comportamento arrendevole, cedevole nei confronti di chi lo interroga, è lo stesso meccanismo.
Premio e punizione equivalgono alla reintroduzione del meccanismo di tortura. Su questo meccanismo si va a creare premio e beneficio sul piano della riduzione della pene ed anche sul piano carcerario. (sempre lo stesso avvocato di prima)
La Mappa Perduta (di Sensibili alle Foglie) riporta un totale di 4.087 inquisiti per organizzazione armata di sinistra dal 1971 al 1989, di questi 1.021 solo nel 1980 e 2.724 nel triennio 1980-1983. Provengono da tutte le regioni d’Italia: il cerchio si stringe.
Ad affiancare il bastone repressivo, i luoghi d’incontro vengono travolti dall’eroina. Chi ancora respira l’aria della trasformazione ma ne è al margine può trovare qui una scorciatoia per il suo personale desiderio. Il primo approccio all’eroina non è disperato ma è una versione individuale di un senso di libertà che per molti era senso comune. Purtroppo, però, questa era una trappola fatta per fare male, e ne ha fatto tanto.
e’ stato più folle chi ha lasciato che una generazione si bruciasse la testa e le vene o chi ha pensato che fosse possibile liberarsi dello sfruttamento?
Per sfuggire all’alternativa tra galera, delazione ed eroina qualcuno decide di prendere il treno e di andare altrove. Le mete sono innumerevoli, certo la più vicina è la Francia, paese nobile.
La Francia respinge regolarmente le richieste di estradizione verso l’Italia a causa delle forzature al diritto introdotte dalla legislazione di emergenza italiana ma non per questo lascia troppo tranquilli i visitatori. Permessi temporanei, vidimazioni frequenti in questura, tengono in allerta i rifugiati e fungono – immagino io – da deterrente nell’agire pubblico.
Dal 1981, prima ancora di essere eletto alla presidenza della Repubblica francese, Francois Mitterand inserisce nel suo programma il rifiuto dell’estradizione per reati politici. Nel 1985 (in Italia governo Craxi) il presidente Francois Mitterand riconosce la presenza di questi “stranieri” e garantisce loro immunità a patto che non ricaschino nell’errore.
Su questo punto, che per certi versi è nodale di questa piccola storia, alcune pagine restano sbiadite: il tribunale francese non riconosce l’operato dei tribunali italiani? MAI? Quindi la giurisprudenza italiana è di fatto fuori dal seminato pubblicamente, SEMPRE. Poi, è ben vero che Mitterand usa i rifugiati per lavare qualche peccatuccio di gioventù, ma cosa gli chiede in cambio? Come vengono stilate le liste? Qualcuno resta fuori? Non è ipotizzabile che oltre a difendere l’autonomia della Francia e le ragioni del diritto francese si mettesse al riparo da qualche colpo di testa di questi viaggiatori?
Non tutti rientrano nella conta di Mitterand, né tutti ci vogliono rientrare, scegliere di viaggiare su un treno sorvegliato resta comunque una scelta impegnativa. Anche per questo, penso, i fuoriusciti italiani non riusciranno mai a costituire un gruppo coeso, e anche su questo, penso, Mitterand contava.
In questo contesto, in barba alla Legalité francese, a qualcuno capita un biglietto di sola andata per qualche paese africano e qualcuno viene comunque trasferito nelle galere italiane in un modo o nell’altro. La coperta non è mai stata troppo lunga.
Però chi decide di restare in questa condizione di ospite resta, abbastanza tranquillo si direbbe, (anche su questo solo un caleidoscopio di storie ci potrebbe raccontare il baratro a cui ci si poteva affacciare recitando il ruolo di ‘ospiti’ mai abbastanza assimilati) fino al momento in cui le condizioni al contorno mutano e il fuoriuscito senza un preciso statuto di rifugiato torna ad essere ‘pericoloso’ o ‘utile’.
Così nel 2001 P.P. viene arrestato ed estradato, C.B. Viene ricercato dal 2004 e arrestato nel 2007 in Brasile ed è in attesa di estradizione, M.P. viene arrestata nel 2007 poi rilasciata per motivi di salute. Dopo più di 20 anni, senza ulteriori capi d’imputazione, dopo una copertura istituzionale reale anche se non formalizzata a sufficienza, questi ostaggi simbolo dell’autonomia francese devono essere riportati a casa, dove li aspettano decine di anni di galera da scontare. Ecco la giustizia infinita, ecco il tunnel, imboccato il quale, non puoi uscire, ecco il messaggio chiaro dato a chi è fuori e osa pensare ad altri modi di organizzare la vita: se hai la sfortuna di incappare in questa trappola, se la tua identità viene registrata, per te non ci sarà più pace né via di scampo. La lista si allunga continuamente.
È il ceto medio, detentore dell’identità del capitalismo borghese. È un cane che abbaia e morde. Non ha vita lunga, è destinato a soccombere lasciando il passo ad altri cani più grossi e voraci di lui, lo sa e forse per questo è più rabbioso. Un giorno tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 ha rotto la regola dell’equilibrio (la leggenda della classe di mezzo che determina lo sviluppo sociale e che garantisce a tutti i meritevoli una possibilità, a cui pure in tanti hanno creduto), ha cercato una scorciatoia ad una soluzione difficile e da lì ha anticipato il proprio destino.
Questo non solo per quanto riguarda il diritto penale, s’intende, ma per esempio anche per il mondo del lavoro, di cui ha progressivamente distrutto certezze e garanzie per renderlo più profittevole e controllabile, e da cui è stato orrendamente fagocitato. È il ceto medio che stenta a tirare la quarta settimana del mese, è per lui che si mobilitano le risorse residue del paese, è lui che non ha più carte da giocare in una economia dominata dalle multinazionali e priva di interesse strategico nel mercato interno. È un’economia di grandi ricchi mantenuta da molti grandi poveri, gli unici posti di lavoro garantiti tendono ad essere quelli dei guardiani.
Beninteso, non è che questa trasformazione non sarebbe avvenuta lo stesso, forse doversi difendere dalle energie messe in campo dai movimenti degli anni ’70 ha solo un po’ anticipato i tempi.
È necessario a questo punto fare un salto indietro di 30 anni per citare chi quel treno non l’ha preso, perché non ha voluto o non ha potuto, ma ha comunque scelto di non vendere la sua storia (che è la nostra storia) per un pezzo di pane. Chi è stato arrestato allora è stato messo di fronte allo stesso bivio, o diventi un altro o stai rinchiuso. Qualcuno ha preferito non forzarsi a diventare l’altro che volevano di lui ma lasciarsi trasformare dagli anni senza rinunciare a sé stesso. Ed è rimasto chiuso. Qualcuno lo è ancora.
L’incapacità oggi degli operatori del diritto penale di affrontare l’umiliazione da loro subita in quegli anni, fa sì che per questo pugno di irriducibili difensori della propria identità non si riesca a trovare una soluzione degna di un paese civile, ma che si resti invischiati in questioni private orrendamente strumentalizzate come il perdono dei familiari o il ravvedimento del detenuto. La giustizia più che essere strumento di tutela della collettività e di regolatore dei conflitti si fa arbitro dei sentimenti, commina colpe o assoluzioni come i cavalieri della tavola rotonda: (con voce profonda) “quell’uomo non si è ravveduto” (boato…) “la figlia della sua vittima non lo ha perdonato” (… grida ebbre di emozione …) “che stia nella sua cella, al buio” (… applausi osannanti).
Infatti la cella è il buio. Altra cosa che ci distingue inevitabilmente dal decennio della follia è che allora di ciò che succedeva nelle celle si sapeva abbastanza, non dico tutto ma molto. Quando anche i detenuti non buttavano degli stracci dalle bocche di lupo per farsi vedere, era chiaro a tutti che dietro quelle spesse mura c’era qualcuno e che quel qualcuno era un pezzo di noi. E per quanto venissero frapposti ostacoli progressivamente crescenti, sono convinto che anche dentro lo sapessero, che un pezzo di loro era fuori. Non parlo specificamente dei politici, ma dei detenuti in generale.
Oggi più di allora il carcere svolge una funzione di collettore della paura e del senso di sicurezza. È il luogo del male, dove ci stanno loro e nel contempo è quello che salva noi dai pericoli. Costruiamo nuove carceri, per vivere più sicuri! Mai fu fatto ragionamento più stupido eppure vedete bene come scivola via liscio.
E la pena, anche in questo caso, è infinita. Se infatti ti punisco per chi sei e non per ciò che fai, posso ben decidere di punirti per sempre, a meno che, naturalmente, tu non smetta di essere ciò che sei e decida di passare dalla mia parte.
L’Italia è uno dei pochi paesi che mantiene l’istituto dell’ergastolo come “fine pena mai”, dopo 26 anni di reclusione per un ergastolano sono possibili delle forme di semi libertà concesse discrezionalmente dal tribunale di sorveglianza, e annullabili in qualsiasi momento. Non vi è alcuna forma di diritto all’oblio, è una lenta inesorabile tortura.
Anche questo non riguarda solo i politici, ma nella stragrande maggioranza detenuti comuni. In Italia oggi vi sono 1.250 detenuti che non usciranno mai dal carcere.
E noi ci siamo stupiti e indignati per Guantanamo, per i processi senza capi di imputazione, per le minacce e le torture, per i sequestri di persona e la galera senza un termine ultimo. Ma il Pubblico Ministero S., che segue il processo Abu Omar, lo sa cosa è successo in Italia tra gli anni ’70 e gli anni ’80? Certo che lo sa, perché ne è stato un artefice tra i più attivi.
Naturalmente oggi i tempi sono cambiati, i desideri sono altri, e i maggiori interessati da questa legislazione sono i mafiosi, contro cui, sembrerebbe tutto è concesso. Ma è appunto la logica del ‘per lui questo va bene’ che segna la fine del “Diritto” come statuto delle libertà borghesi e cambia per tutti il livello dello scontro. Se esiste una dea bendata della giustizia sta senz’altro vomitando.
viene voglia di invertire le caselle invocando l’oblio per i singoli e la memoria per le storie collettive, non solo per la politica, sempre
Voi direte, ma che me ne frega, in fondo la ‘giustizia’ è stata sempre di parte. Vero, ma il nostro interlocutore è cambiato, così i suoi interessi e i suoi strumenti, questo noi dobbiamo saperlo. Chi viene dopo o da altri paesi probabilmente già lo sa.
t.s. 17 marzo 2010