viviamo, si dice, in un’epoca poco sicura.
Come si è detto in precedenza talvolta vale la pena di guardare prima ai credenti che alle divinità. Quindi viene da dire che deve essere proprio così, dobbiamo effettivamente stare vivendo un’epoca insicura.
Poi, a guardar bene, ci si accorge che la vita media si è allungata, che le catastrofi naturali sono più prevedibili di prima, che il numero di atti che portano dolore o sofferenza quantomeno non è in aumento, che molte delle morti accidentali è dovuta ad incuria e trascuratezza quindi perfettamente prevedibile, insomma verrebbe da dire che per quanto attiene i rapporti della collettività risulta che i rischi siano mediamente diminuiti. [queste considerazioni valgono soprattutto per l’italia, nel mondo si muore di fame, malaria, aids e guerre forse più di prima. Tutte cose che potrebbero avere una soluzione o che potrebbero essere molto più contenute di quanto non siano ma che, soggette a volontaria incuria, rendono la vita molto più incerta del necessario.]
Però se si lamenta insicurezza qualcosa ci deve essere.
Mancando delle giustificazioni esterne possiamo chiederci se un primo motore di insicurezza non possa avere delle radici soggettive, personali.
E qui la ricerca è più facile, vi sono senz’altro meno ‘certezze’ nel domani. Il lavoro si è precarizzato, ed è divenuto oggetto di un continuo scambio dove, il più delle volte, vince chi ha il timone in mano. Le Ideologie (tutte) hanno lasciato il campo ad una navigazione a vista fatta più di cose concrete ma anche di interessi meschini. Le sorti progressive dell’umanità non sembrano più capaci di stare nelle mani né dei teorici del socialismo né dei teorici del capitalismo, ed anche il trascendente non sembra più riuscire ad indicare delle prospettive universali positive.
Il consumismo ci ha insegnato a sostituire i pezzi rotti anziché aggiustarli, attività meno ecologica ma più utile a fare circolare denaro. E questo modo di fare alla lunga tende a cronicizzarsi, entra nelle nostre ossa e si impone in ambiti che non gli appartengono: come avviene con i motori, non si riparano più le relazioni, i rapporti e le storie e le ragioni perdono di importanza.
In questo modo sappiamo meno delle nostre ‘macchine’ (che tendono sempre di più ad essere dei circuiti stampati in cui è inglobato un sapere che non è il nostro) e tendiamo a conoscere meno delle nostre relazioni, che si spogliano della loro storia per divenire un terreno costantemente nuovo.
Così non scegliamo di impegnarci a ‘migliorare’ il luogo del lavoro o la nostra vita, preferendo, fino a che è possibile, cambiarlo, scegliendo tra ciò che il mercato propone. Senza accorgerci che in questo modo la minestra resta sempre la stessa e quello che ne esce sconfitto è il rispetto e la considerazione di noi stessi.
Sentirsi obbligati a cambiare scegliendo tra storie non conosciute genera una grossa insicurezza. Forse la più importante.
Poi c’è la narrazione che alimenta la paura. L’efferato delitto, ciò che accade alle donne che girano da sole, lo straniero che uccide, lo zingaro che rapisce i bambini, la mafia, il terrorismo internazionale… Tanto che quando scopri che nessuno zingaro è mai stato condannato per aver rapito un bambino quasi non ci vuoi credere. (in verità un caso c’è, ed è descritto qua)
Poi c’è lo scempio dei campi nomadi perennemente sgomberati quasi fosse una gara tra il gatto e il topo, dove chi scappa non ha scelta e ogni volta viene raggiunto e fatto ripartire da capo. E questa comunità errante perennemente cacciata diviene a tal punto estranea a ogni dove che non può che comunicare insicurezza al solo pensarla.
Poi c’è la colpa dell’immigrato, ontologica perché immigrato, ossia straniero ossia diverso. La colpa del diverso fa sempre paura e genera insicurezza.
Poi la cronaca, e sono incidenti, caldaie che esplodono, scuole che crollano, una fila infinita di incidenti sul lavoro, di fronte a cui non siamo portati a fare uso di buon senso e a chiederci come mai ciò è successo, ma piuttosto a concludere che vi siano in giro un sacco di pericoli.
Il palazzinaro speculatore finisce a costruire con la sabbia le mura dell’ospedale in cui potrebbe venire curato suo figlio, o l’imprenditore d’assalto smaltisce rifiuti tossici lungo le coste dove lui stesso, presumibilmente, andrà a immergersi nella buona stagione. Questo fa spavento ma non genera insicurezza.
Poi ci sono le epidemie, gli allarmi mondiali di virus terrificanti, che si sciolgono come neve al sole dopo meno di una stagione e lasciano solo un bel mucchietto di denaro nelle mani delle industrie farmaceutiche e un discreto senso di insicurezza nel domani.
Genera più insicurezza qualche centinaio di morti per la SARS che milioni di morti di malaria.
Infine l’insicurezza la generano le jeep militari che circolano (indolenti) per le città e i controlli posti all’ingresso dei quartieri più ‘difficili’.
C’è la teoria del colpevole a portata di mano, o ancor meglio portato a casa nostra direttamente dalla televisione che ci serve un piatto di insicurezza eccitante ma non pericoloso.
Siamo diventati più propensi a farci filmare in ogni momento della nostra vita che a pensare che le banche ci stanno derubando approfittando di una (loro) posizione di vantaggio che dipende solamente dal fatto che noi ci crediamo.
L’insicurezza è diventata un totem portatile, ci spiega un sacco di cose e ci guida a molte soluzioni, ci fa fare poche domande e in fondo ci fa vivere felici e sentire più sicuri di noi stessi.
Poco importa per quei disgraziati dei CIE o per chi rinchiuso in una prigione di stato preferisce morire a sperare. In fondo questi, così, ci danno una mano.
27 aprile: G.P., di 34 […] si è tolto la vita intorno alle 7,30 nel carcere di Castrogno a Teramo. […] Per uccidersi ha utilizzato i lacci delle scarpe legati alla sbarra della finestra della sua cella, con i quali ha creato un cappio. Poi si e’ lasciato andare procurandosi la morte.
è il ventiduesimo dall’inizio dell’anno
tommaso, 30 aprile 2010