Ho venticinque anni:
se ad agosto
riesco a non fare morire le piante,
vuol dire che non sprecherò la mia vita,
vuol dire che andrà bene.
Corre voce che le maggiori prove d’ingegno uomini e donne le diano in gioventù. Che bucata l’adolescenza restino per un certo tempo intatte fantasia, coraggio e spregiudicatezza e che questo aiuti ad osare dove non si può. Probabilmente è una diceria priva di fondamento ma, se fosse, troverebbe conferma in questo libro di poesie di Tommaso Russi, venticinque anni e uno spirito libero come l’aria che maneggia i suoi versi come un esperto kendōka la sua spada.
Tommaso ci guarda dai suoi vent’anni, e da lì ci racconta come ci vede, come ci si vede. Con sensibilità e amore ci porta all’incertezza, alla profondità e alla cinica ironia che spesso confondiamo, noi più vecchi, con una tavola bianca ma che invece è una trama fitta, scritta in una lingua a noi sconosciuta.
Bravo Tommaso, e tienilo a cuore, la poesia mantiene giovani, sempre.
Se quando sei via
rimango fermo sdraiato,
è per paura di alzarmi
e non incontrarti,
di stare solo
con le pareti di quella che ho conosciuto come casa tua.
Per questo lascio il letto disfatto,
i calzini per terra, i piatti nel lavandino:
per occupare spazi di altro
e tornare indietro
a quando ti aspettavo,
fumando, sotto il ponte di vetro,
fingendo di essere distratto.
Tommaso Russi, qualche parola tra padri e figli, ERETICA edizioni, quaderni di poesia
ommot gennaio 2020