In un’era in cui il giudizio domina la comprensione, i conflitti sociali e il disagio diventano oggetti del diritto penale, l’istituto dell’ergastolo assume la funzione simbolica della giustizia infinita. Simbolo e monito per i più, a spese di vite svuotate della loro storia e bollate come ‘criminali’, ‘colpevoli’, degne solo di un rimorso rabbioso. L’antro del sentimento in cui non si vorrebbe mai precipitare.
Figlio della schiavitù, il carcere finisce così il suo giro tra gli equilibri e le compatibilità del reinserimento sociale e torna, se possibile peggio, ad essere una condanna a vita, senza appello. L’astrazione del reo genera diffidenza, indifferenza, reifica la colpa che merita la punizione. Quindi il primo muro (il nostro muro) è la distanza con le cose. Il primo passo è la conoscenza.
Conseguente all’applicazione di un giudizio vi è la inflizione di una pena.
Mentre il giudizio sovrappone una verità soggettiva (e parziale) ad un qualcosa che è accaduto, la pena inchioda questa verità sul corpo e sullo spirito del reo sconfitto.
Affetta da ipocrisia acuta, una tradizione cattolica millenaria appende l’icona della sentenza ingiusta (il cristo crocifisso) nelle aule dei tribunali e delle scuole e passa il suo tempo a giudicare e a condannare.
Il gioco di quelli che si credono vivi non si cura della fine degli attori, figurarsi delle anonime comparse.
tommaso, 5 luglio 2010
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